INAUGURAZIONE Sabato 9 maggio 2015 ore 18
La Quarta Dimensione per Mario Vespasiani è l’affinità con alcuni maestri dell’arte italiana, presenti in vari momenti della sua ricerca, non un “omaggio” ma un dialogo diretto e rispettoso portato avanti da diversi anni con la giusta dose di audacia. Dopo Lorenzo Lotto, Osvaldo Licini e Mario Schifano è la volta di Mario Giacomelli, il grande fotografo che meglio di chiunque altro ha saputo raccontare con una sensibilità descrittiva ricca di sublime poesia, il paesaggio leopardiano e i temi del nostro vivere come l’amore. Le immagini di Mario Vespasiani sono tratte dalla serie Mara as Muse dove la sua donna è ritratta come icona di bellezza a contatto con la natura fino a perdere il senso della carne. S’instaura tra le opere dei due autori, entrambi marchigiani, un dialogo di forte impatto emotivo dove “la buona terra” delle Marche si esprime nelle ossa, nella pelle, nei capelli di corpi come scenari di esperienza in cui l’essenza vitale è immutabile ed eterna. I loro sguardi fissano attimi di estrema interiorità rivelata dal senso astratto del bianco e nero, per restituirci momenti di poesia da contemplare in tutti i suoi aspetti.
La quarta dimensione nella fotografia di Mario Giacomelli e Mario Vespasiani
a cura di Nikla Cingolani
Intervista di Nikla Cingolani a Mario Vespasiani, aprile 2015
Iniziamo con la domanda che dà origine al titolo, spiegaci il concetto di Quarta dimensione:
La quarta dimensione se dal lato espositivo racchiude il mio senso di vicinanza ad alcuni grandi maestri dell'arte italiana, particolarmente presenti in determinati momenti della mia ricerca, dal lato concettuale rappresenta una rinnovata consapevolezza, un tipo di coscienza che mi porta a vivere le opere, ben oltre il normale fluire di spazio-tempo.
Alcune persone con il loro intuito, con il loro talento hanno saputo imprimere al presente un'impronta talmente profonda da ampliare la nostra percezione del reale che sembra aumentare di intensità, fino a consegnarci un mondo ancora più ricco di elementi da cogliere.
Hai iniziato questi dialoghi appena trentenne con dei maestri assoluti dell'arte da Lorenzo Lotto ad Osvaldo Licini, da Mario Schifano ed ora ti vedi di fronte l'altro grande Mario che è Giacomelli, come nasce questa necessità, piuttosto anomala per un artista così giovane?
Credo di aver intrapreso fin dall'inizio un percorso indipendente ed estraneo alle varie tendenze, ciò che mi preoccupa di più è l'essere fedele al mio impegno quotidiano più che a quello che fanno gli altri. Tuttavia per ciascuno di noi italiani la presenza della storia dell'arte si riscontra in ogni istante della vita quotidiana e con questa dobbiamo fare i conti. Il fatto è che come per la politica, la generazione dei nostri padri (nel senso artistico) ha avuto "poca presa" sulla nostra e così siamo chiamati ricucire la trama interrotta con gli ultimi giganti a disposizione, ossia direttamente coi nostri nonni, che invece erano sul campo in prima linea. Forse per questo il richiamo al passato, più che ad autori in vita, per caricarmi di quella forza indomita, meno soggetta al mercato, capace di innovare e di parlare con voce nuova.
Di fronte ogni maestro rimane sempre un profondo senso di rispetto e conoscenza, da qui la scelta di un determinato autore anziché un altro, ma c'è anche una piccola dosa di spavalderia, nel non aver timore nel provare a rivolgermi in prima persona come se fosse (e lo è) lì in piedi davanti a me.
Dopo le importanti mostre sulla pittura questa è la prima in cui ti poni in dialogo con la fotografia:
Ho impiegato tutto il 2014 ad approfondire il medium fotografico e dunque ricevere l'invito di Pio Monti e tuo per questa mostra mi onora. Se all'inizio non mi sembrava scontato riuscire a trasmettere quel sapore pittorico che avevo in mente ad un certo immaginario fotografico che, specie quando tocca il tema trattato, ossia la femminilità, cede spesso al glamour o allo scontato, riguardando tutta la serie sono convinto del risultato come di aver portato un messaggio importante, che ci inviata a guardare la persona che ci è di fianco, con quella dose di stupore, tale da farcela sembrare sempre diversa, concreta quanto imprendibile come una nuvola.
Presenterò delle immagini della serie Mara as Muse, nelle quali ho ritratto la mia consorte in svariate situazioni, tali e inaspettate da farci considerare entrambi gli autori degli scatti.
Ho voluto dedicarmi interamente a questo tema (così poco sentito dagli artisti contemporanei) semplicemente perché lo sperimento tutti i giorni.
Arriviamo a Mario Giacomelli, cosa ti ha spinto ad avvicinare la tua ricerca alle sue fotografie?
Quando mi avvicino ad un artista, cerco un confronto non solo con le sue opere ma anche con le sue idee. In tutte le mostre precedenti ho raccolto questo cavo sommerso che mi porta da qui all'invisibile. Ho preso lo scatto da puma da Schifano, l'indole lirico-eretica da Licini, l'equilibrio tonale e psicologico da Lotto e in Giacomelli sento comune l'attaccamento al nostro territorio e ai volti contrastati che lo popolano.
Come ho cercato di fare io, lui quando fotografava faceva davvero poesia, con una tale presa sulla realtà che coglieva quello che altri, che magari scattavano vicino a lui, non sapevano vedere e così ci ha restituito i segni e le geometrie che reggono le rughe di un volto o di un campo nelle varie stagioni. Con Mara ho cercato di rendere quello stesso stupore, come fosse una rosa davanti i miei occhi, non solo nell'istante della fioritura ma nell'intero arco temporale di un più ampio racconto, nel quale è necessario essere vigili per apprezzarne i mutamenti inattesi.
Ho colto che nelle immagini di entrambi, oltre alla costante del bianconero, emerge una sensazione che va oltre il tempo in cui quelle immagini sono state scattate:
La quarta dimensione nella ricerca di Giacomelli è proprio questa: sta nella sua consapevolezza di saper fissare il tempo in un linguaggio che si fa traccia, necessità, soffio vitale. Lo sfocato, i grigi, i neri saturi, non fanno altro che dissolvere la materia dentro l'aspetto spirituale della vita. Portava alla luce resti di generazioni scomparse, di antichi rituali e di profonda empatia per le persone che aveva di fronte. Nelle mie foto ho seguito lo stesso percorso, ma sempre rivolto ad un unico soggetto, che può apparire come lo specchio delle mie intenzioni. Ho cercato in Mara tracce di me stesso, i segni della mia cultura, le forme dei miei luoghi.
Noi siamo circondati da simboli che non sappiamo più decifrare semplicemente perché non ci concediamo loro e se non sappiamo amarli, non si svelano. Ho scelto un solo soggetto per questo, per non distrarre il mio calore ma per disperderlo a piene mani verso una sola direzione che tuttavia include tutte le altre.
Ho cercato di nascondere tutte le cose che mi circondano, nel posto dove potevano essere più in mostra.
Voi Mario in un certo senso ricorrete, se pur con modalità distinte, verso una tendenza all'astrazione:
Nelle mie immagini l'astrazione è presente a livello di equilibrio tra primo piano e sfondo, in modo che le singole parti siano espressione di un tutto. Penso che alla fine sia il mio proprio atteggiamo mentale, per fare in modo di avvicinarmi il più possibile al reale senza trascurare i dettagli. In Giacomelli è anche una componente (in)formale delle sue immagini. In entrambi è una questione di respiro, rincorriamo ciò che ci toglie il fiato, è come se provassimo a baciare quello che stiamo fotografando.
Siamo due grandi osservatori e riversiamo al nostro interno il vissuto, per rivelarlo in un continuo fluire. Due autori aperti alla meraviglia, di fronte ad un universo sconosciuto che un po' alla volta si dipana. Tracciamo dei segni, delle orme, delle visioni di luce che ci mettono in comunicazione sia con le altre persone che con ciò che risulta impercettibile e immateriale.
Pur mantenendo ciascuno una identità specifica nei vari temi trattati:
Ognuno documenta il proprio mondo nella maniera più propria e personale, per tale motivo non si tratta mai di ripercorrere gli stessi temi, infatti le mie mostre non hanno mai avuto a che fare con gli "omaggi" verso i determinati autori coinvolti, quanto nell'avvicinarsi ad ognuno di essi, per una sensazione di appartenenza che supera le epoche, le tecniche e le diverse vicissitudini personali. In Giacomelli ho colto questa sua necessità di abbracciare il tempo e così attraversandolo, ce lo restituisce sotto forma di un codice intimo, a cui ha saputo aggiungere la vitalità di una libertà creativa, abile sia a rinnovare il significato che a porre nuove domande.
Facciamo entrambi riferimento quella condizione ciclica del poeta, di colui che sa risvegliare, in un mondo occupato da mille impegni e impellenze, la memoria collettiva, le presenze invisibili senza per questo distanziarci dal vero.
Mi sembra chiaro che strada intrapresa passi anche nell'aspetto geografico degli stessi luoghi:
Forse è una condizione da non sottovalutare quella del territorio dove hanno preso forma le nostre immagini. Siamo marchigiani e la nostra regione si manifesta senza dubbio nei suoi abitanti, in quel particolare senso di appartenenza che a volte trasale in maniera polemica o appassionata, altre con rabbia o per infinito amore, ma che comunque s'imprime sulla fantasia e su una certa follia visionaria e sentimentale. Le Marche emanano un forte temperamento contraddittorio, sensuale e allo stesso tempo religioso, concreto ed umile, selvaggio e indipendente. Sarà per la conformazione del territorio o per un modo di fare sedimentato da secoli, ma sembra che ognuno di noi scelga di vivere nel suo eremo giusto per non essere distratto e per rimanere nel suo intimo in contatto con l'universo o con le presenze fantastiche e sacre che lo attraversano ancora.
A mio avviso i tratti salienti delle Marche sono ben marcati, rispetto alle altre regioni, in molti dei suoi figli. L'artista marchigiano indossa non di rado la veste di sciamano e dialoga con la luna e coi fantasmi, con gli antenati sepolti, con le Muse e con la brillantezza seducente del nostro Adriatico. Nomade ed eccentrico, spirituale e tuttavia carnale, stanziale e instancabile, l'artista che vive questi luoghi è un'esplosione continua, una rivelazione dopo l'altra.
Vale a dire che è la natura del territorio a generare nell'autore l'energia espressiva?
In ogni momento possiamo verificare le tracce lasciate dagli uomini nelle forme morbide del paesaggio che le ha accolte e dunque siamo chiamati ad interpretare non solo quei segni ma anche tutta l'energia sotterranea che ci appartiene dalla nascita. Un'energia che dalla natura passa all'uomo e che dall'individuale diventa universale, mettendoci in comunicazione con forme lontane nella memoria ma presenti, nei gesti rituali fino alle parole nuove.
In un certo senso credo che si possa definire il nostro carattere entro la categoria del Classico, inteso non tanto come malinconico sguardo al passato, bensì come vitalità che si rinnova su più fronti temporali, come ispirazione continua nell'offrire un'impalcatura formale dalla quale modulare la coscienza. Classico come senza tempo.
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